15 incipit straordinari di 15 scrittori italiani contemporanei che avrai tanta voglia di leggere
Chissà quante volte abbiamo cominciato a leggere un libro e sono bastate poche righe per farci capire che ci sarebbe piaciuto, che ci avrebbe fatto ridere, sorridere o, magari, piangere, che ci avrebbe appassionato o che, al contrario, l'avremmo odiato. Perché la letteratura è così: ci apre mondi che non tutti vediamo allo stesso modo. In questa gallery abbiamo fatto una selezione di 15 incipit: sta a voi stabilire se i libri da cui sono tratti possono finire sugli scaffali della vostra libreria (o tra i vostri libri elettronici) o meno. E, mai come in questo caso, buona lettura!
Nelle pagine romane del quotidiano, il mercoledí o a volte anche prima, vedo l’annuncio di un film che aspettavo. C’è scritto: «da venerdí». Chiudo il giornale sapendo che da venerdí comincerà un segmento di tempo dentro cui una sera, presto, andrò a vederlo. Non so ancora dove, quando. Ma ci andrò.
Poi arriva il venerdí, e passa. Il primo fine settimana non se ne parla. Altrimenti anche il sapore dell’attesa durerebbe poco; e poi il primo fine settimana ci vanno tutti.
Aspetto.
A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte, e tutto era cosí bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano ancora che qualcosa succedesse,che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, e magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare camminare fino ai prati e fin dietro le colline. –Siete sane, siete giovani, – dicevano, – siete ragazze, non avete pensieri, si capisce –.
Che senso ha, oggi, nel 2021, leggere Dostoevskij?
Perché una persona di venti, o di trenta, o di quaranta, o di settant’anni dovrebbe mettersi, oggi, a leggere, o a rileggere, Dostoevskij?
Ecco.
Domanda che non mi mette minimamente in imbarazzo.
La mia risposta è: non lo so.
Io, qualsiasi domanda mi si faccia, rispondo quasi sempre, come prima cosa, che non lo so. Poi, delle volte, vado avanti.
Foto: Chris / Unsplash
Quello che sto cercando di dirti è che, al di là della sorpresa, c’era un’altra questione di cui io e Ayelet non osavamo parlare: il fatto che in qualche modo sapevamo – dovrei dire sapevo – che poteva succedere. I segnali erano lí da sempre, ma preferivo ignorarli.
Quelli che parlano d’amore sono convinti di sapere tutto dell’amore. Perché pensano che la loro esperienza faccia testo. Io questa cosa non me la spiego. L’idea che le proprie faccende d’amore abbiano l’autorevolezza del vissuto, voglio dire. Come se il vissuto dei parlatori d’amore (che infatti nei discorsi infilano sempre la parola «vita»: «Si tratta della mia vita», «Ormai è fuori dalla mia vita», «Ho messo la mia vita nelle sue mani e guarda come mi ha ripagato» ecc.) fosse una specie di precedente giurisprudenziale che fa stato nelle faccende amorose degli altri.
Non è per il tram. Il tram lo devo prendere per cinque anni alle sette di mattina. Ma non mi pesa. Mi pesa tutto quello che viene prima, quando sono ancora a casa al buio, e la luce non la posso accendere se no mia madre si sveglia e, visto che viene a letto così tardi, meglio di no; mi pesa che devo lavarmi al freddo perché il riscaldamento non è ancora partito, mettermi su il latte nel pentolino e stare attento quando sfrigola che non si metta a bollire, se no se ne esce tutto sul fuoco, ed è incredibile quanto puzza il latto quando cade sul fuoco.
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Fui giovane e felice un'estate, nel cinquantuno. Né prima né dopo: quell'estate. E forse fu grazia del luogo dove abitavo, un paese in figura di melagrana spaccata; vicino al mare ma campagnolo; metà ristretto su uno sprone di roccia, metà sparpagliato ai suoi piedi; con tante scale fra le due metà, a far da pacieri, e nuvole in cielo da un campanile all'altro, trafelate come staffette dei Cavalleggeri del Re... che sventolare, a quel tempo, di percalli da corredo e lenzuola di tela di lino per tutti i vicoli delle due Modiche, la Bassa e la Alta; e che angele ragazze si spenzolavano dai davanzali, tutte brune. Quella che amavo io era la più bruna.
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Non sai niente di me, eppure sai tanto perché sei mia figlia. L’odore della pelle, il calore del fiato, i nervi tesi, te li ho dati io. Dunque ti parlerò come a chi mi ha visto dentro.
PROLOGO
“È stato calcolato che il peso delle formiche esistenti sulla terra è pari a venti milioni di volte quello di tutti i vertebrati.” Così lo scultore ottocentesco Amos Pelicorti detto Mirmidone rispondeva a coloro che gli chiedevano perché componesse le sue opere in mollica di pane.
Foto: Joshua Rawson-Harris / Unsplash
Abitavo nella stessa casa di campagna, alle porte di Roma, da sempre, prima con i miei genitori, poi con una serie di coinquilini, poi con l’uomo che sarebbe diventato mio marito. Ero sposata da dieci anni, da otto tenevo una rubrica per un settimanale, “Pranzi della domenica”, che mi portava per una settimana, da domenica a domenica, a pranzare con una famiglia normalissima o assurda, comunque uguale solo a se stessa, e a raccontarla.
Foto: Jason Briscoe / Unsplash
Fidarsi della prima impressione può portare fuori strada. Comunque, per lui, era stata antipatia. Istintiva, quasi feroce. Si era voltato, come tutti i presenti, per il chiacchericcio insistente in fondo all'aula. La lezione su Dante durava già da un'ora, la noia lievitava insieme ai versi. L'impettito professore, con gli occhi fissi sul libro – la sagoma di un'upupa, la testa stretta e un pennacchio di capelli bianchi – commentava ostinato a voce bassa, gareggiando in monotonia con lo scroscio della pioggia. Poi dev'essere caduto un libro a terra: il rumore ha spezzato di colpo la voce e una terzina incomprensibile del Purgatorio. Allora l'upupa ha finalmente alzato gli occhi piccoli come spilli, e li ha visti.
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Piangere fa venire gli occhi belli, diceva mia nonna; peccato che ora non sia capace di spremere una lacrima. Di solito sono un uomo che piange, che scioglie il catarro nelle lacrime e ne riempie fazzoletti; i materassi sobbalzavano galleggiando sul mio muco, non è per vantarmi — né per giustificarmi, del resto. La tranvata è stata forte, il muso contro la porta quando già ero sicuro di entrare
Il primo di giugno dell'anno scorso Fontamara rimase per la prima volta senza illuminazione elettrica. Il due di giugno, il tre di giugno, il quattro di giugno, Fontamara continuò a rimanere senza illuminazione elettrica. Così nei giorni seguenti e nei mesi seguenti, finché Fontamara si riabituò al regime del chiaro di luna.
Foto: Ganapathy Kumar / Unsplash
Sono nata in mezzo al Tevere, sulla barca-vongola di pietra tra le due anse che abbracciano l’Isola Tiberina: la testa rivolta a ovest, verso il tramonto quasi invernale di Fiumicino; i piedi puntati verso l’Adriatico, sulla direttiva dell’autostrada A24 Roma-L’Aquila, aperta proprio in quei giorni al traffico in alcuni suoi tratti. L’ho fatto – questo famoso venire al mondo – come scivolando via con la corrente del fiume, dopo chilometri di asfalto di fianco alle ortensie lungo i guardrail. Più che nascere, sono stata estratta [...]
Deh, direbbe Silvia.
Ho iniziato a lavorare in un call center. Quei lavori disperati che ti vergogni a dire agli amici.
«Cosa fai?»
E tu: «Be’, mi occupo di promozione pubblicitaria».
Che meraviglia l’italiano, altro che giochi di prestigio.